UN ASCOLTO POSSIBILE
Era il 2005 quando ho iniziato a fare terapie a distanza
Si trattava della richiesta di miei pazienti che, per motivi familiari, e di studio si stavano trasferendo in altri paesi, definitivamente o per lunghi periodi e di una mia paziente impossibilitata in quel periodo, a raggiungere il mio studio.
Dopo molta riflessione e molti confronti con loro, mi sono resa disponibile a questo tentativo, e ci siamo riservati di valutare insieme l’efficacia di questa modalità.
E’ iniziata così la mia prima esperienza di una analisi condotta a distanza, attraverso lo strumento del telefono, inizialmente, poi utilizzando skipe.
Io, all’epoca ero assolutamente stanziale da circa 20 anni nel mio studio romano, con un setting rigorosamente analitico e dunque senza alcuna rete teorica a sostegno di questo “nuovo setting” in spazi dislocati.
Anche tentativi di attivare canali di confronto e discussione teorica con altri colleghi si era rivelata difficile.
Quasi nessuno all’epoca, in Italia, si cimentava con questa modalità, anzi, a dire il vero c’era molta diffidenza e polemica nei confronti di chi lo faceva.
Diversa la situazione in altri paesi. (cita)
Mi si poneva un interrogativo fondamentale : poteva essere possibile ricreare la dimensione dell’ascolto, di un ascolto “analitico”, in assenza dell’altro? La dislocazione spaziale e la distanza avrebbero compromesso tale ascolto dovendo rinunciare alla comunicazione potente che la presenza del corpo impone alla relazione ?
Circa 3 anni dopo, nel 2008 sono stata contattata da una persona,( inviata da una collega che era a conoscenza della esperienza che stavo conducendo) da più di 10 anni impegnata in attività professionali all’estero . Il suo lavoro richiedeva frequenti spostamenti e non avrebbe previsto un rientro in Italia.
Mi ha chiamata raccontandomi di essere in un momento di grave difficoltà e sofferenza personale, di aver fatto un tentativo di psicoterapia in lingua inglese con una terapeuta del posto ma di averla interrotta dopo circa un anno per una serie di difficoltà che rendevano per lei impossibile entrare in quella condizione di relazione ed alleanza terapeutica, indispensabile alla realizzazione di un lavoro psicologico.
I due motivi più rilevanti, erano, a suo avviso:
-la lingua : per quanto, infatti lei parli ovviamente perfettamente l’inglese, sentiva che nella condivisione di emozioni e nel racconto di una storia personale, si determinava una intraducibilità di questi in un’altra lingua.
-la ovvia differenza di appartenenza culturale che determinava frequentemente una incomprensione ed uno slittamento di contesti che rendeva per lei emozionalmente difficile sentirsi compresa.
A quel punto si trattava di iniziare un percorso psicologico con una persona che, a differenza dei miei pazienti attuali, non avevo e non avrei probabilmente mai incontrata.
Mi ha molto colpita un suo commento: …” mi sono spesso chiesta, in questi ultimi tempi come sia possibile per noi italiani che lavoriamo e viviamo in giro per il mondo, e siamo tanti, farci aiutare se stiamo male…”
Ho iniziato così a lavorare anche con alcune persone che non avevano e non avrebbero mai abitato e condiviso con me lo spazio fisico della stanza d’analisi.
L’esperienza di questi nuovi percorsi, ha attivato infinite riflessioni e la consapevolezza che un ascolto empatico sarebbe stato possibile solo se io mi fossi permessa di uscire dalla stanzialità fisica, temporale ed emotiva nella quale avevo sempre alloggiato, per “dislocarmi empaticamente nei luoghi dell’altro, nei tempi dell’altro riuscendo ad immaginarne e condividerne i contesti, le esperienze, i linguaggi, le relazioni e i legami , tutto quello che costantemente dovevano intentare per costruire e definire una possibilità di nuove appartenenze, spesso, di volta in volta, provvisorie.
«Oggi mi piacerebbe molto sapere se l’imminente trasloco segnerà un inizio o una fine.» Marc Augé, Diario di un senza fissa dimora, 2011.
Seguire il filo del loro andare recuperando e ricostruendo insieme tutta la trama che connetteva quei percorsi al “luogo di partenza”.
Si è aperta la necessità impellente di affrontare ed elaborare scenari inediti e cambiamenti rispetto ai quali, anche la tradizione culturale della nostra professione (in Italia), ci ha resi poco flessibili.
Nella terapia online infatti, cambia profondamente il setting e quindi, le linee guida e la pensabilità stessa di cosa possa determinare e garantire l’ efficacia della terapia.
L’importanza della corporeità nella relazione interpersonale, come può essere risolta nella psicoterapia online, totalmente disancorata dai tanti stimoli percettivi della corporeità?
Ed ancora il rischio che, gli individui, sempre più travolti da un imponente processo di accelerazione ed alterazione delle abituali coordinate spazio-temporali, chiedano non solo, risposte altrettanto veloci e “dislocate” al loro malessere , ma anche una formula terapeutica più anonima.
La terapia online può quindi rischiare di colludere col disagio, consentendo solo soluzioni di temporaneo “maquillage” che non riescono ad ascoltare in profondità, né a consentire all’altro di “apprendere” tale ascolto di sé.
E, inoltre, il disagio del terapeuta , (il mio disagio )che, scopre, disorientato, la emergente necessità di trasformare le forme terapeutiche tradizionali, non più compatibili ed attrezzate a far fronte a nuove domande o forse, in realtà, ad antiche e sempre uguali domande, che si muovono però oggi all’interno di contesti comunicativi fluidi, aperti, assolutamente inediti.
Il luogo protetto, consueto e rassicurante dello “spazio-setting fisico” che fino ad oggi è stato l’esclusivo luogo dell’incontro, dell’ascolto e della relazione con sé stesso e con l’altro, rischia di venire travolto-stra-volto, dalla urgenza di una richiesta che impone al contrario la dislocazione spaziale e fisica.
La necessità di attrezzarsi all’utilizzo di nuovi strumenti che medieranno la comunicazione fra paziente e terapeuta tentando di mantenere inalterata la profondità di quella relazione.
Tuttavia, questo continuava ad avvenire dalla consueta “distanza della mia stanzialità”, nel mio studio romano.
Dopo ancora qualche anno, anche le mie “circostanze di vita” sono cambiate, e, per motivi di famiglia, dal 2013 risiedo in Spagna, dove ho richiesto il riconoscimento del titolo professionale ed ho effettuato l’iscrizione all’ordine, per poter lavorare anche qui.
Ho iniziato a preparare i miei pazienti molto prima che questo cambiamento si realizzasse.
E’ stato un periodo durissimo sul piano umano, emotivo e professionale e molto ho riflettuto sulla peculiarità di questo nostro mestiere, su quanto forse poco siamo attrezzati ad affrontare scelte improvvise di cambiamento che la vita ci pone, sempre certamente destabilizzanti ma, nel nostro lavoro, molto di più.
Ci sono voluti circa due anni.
Con alcuni di loro ho previsto il tempo, già annunciato, e concordato della conclusione del loro percorso.
Con altri abbiamo lavorato alla elaborazione di questa separazione “fisica” ma con la prospettiva e la possibilità che il nostro percorso potesse continuare online.
Questi due anni, sono stati fondamentali per loro e per me.
Qui tralascio ovviamente e per il momento, quanto mi riguarda e voglio brevemente riconsiderare invece tutto quello che ha comportato per loro.
Quando sono arrivata a comunicare che mi sarei trasferita all’estero, mi sentivo pronta ad accogliere/contenere le reazioni di ciascuno di loro pur convinta che non potessi usufruire di alcuna prevedibilità: incredulità, rabbia, costernazione, la difesa dell’indifferenza, la squalifica…..
Ed infatti così è stato.
Ripeto, ci sono voluti due anni circa.
Piano piano con ognuno di loro abbiamo dato forma e parole ad una possibilità anche se ancora non ad un progetto, ma questo non ci era dato ancora poterlo definire.
Quando è arrivato il momento dell’ultimo giorno (era dicembre del 2012 e avevo già da tempo avvertito tutti che ci saremmo salutati alla vigilia della interruzione delle feste del Natale) avevo concordato i nostri appuntamenti skipe con tutti, tranne che con tre di loro che avevano scelto di concludere l’analisi piuttosto che continuare a distanza.
Uno di quei tre mi ha poi ricontattata dopo circa due mesi per riprendere.
Espatriati: coloro che hanno lasciato il territorio della patria.
A quel punto ero anche io “espatriata e quella che, fino a quel momento, ma già da circa 5 anni, avevo intrapreso come esperienza di lavoro a distanza con italiani residenti all’estero ma che fino a quel momento si era realizzata abbastanza episodicamente, accettando le richieste di persone che mi venivano inviate attraverso il consueto passaparola fra colleghi o altri pazienti, mi si è rappresentata come la possibilità di diventare un progetto.
Ho tentato da allora di cimentarmi con questo dovendo ricorrere per affrontarne la pensabilità a qualche ancoraggio che potessi ritenere saldo e non mediabile (con me stessa ovviamente).
-la assoluta necessità che una terapia si realizzi fra interlocutori che parlano la stessa lingua e che questa lingua sia la lingua madre
L’improrogabile esigenza di attrezzarsi al riconoscimento di una domanda e di un bisogno di sostegno e di aiuto psicologico da parte di persone che per motivi personali e professionali, avevano scelto o erano state costrette a vivere , spesso per lunghi periodi o definitivamente in luoghi diversi dal loro paese di origine.
La prima, emergente evidenza mi indicava quanto, una esperienza di sradicamento dai propri luoghi, affetti e relazioni, pur vissuta come prospettiva di realizzazione professionale e personale, si costituisse come momento delicato e sensibile di estrema (e spesso inconsapevole) destabilizzazione che avrebbe potuto riguardare sia individui che interi nuclei familiari.
Lo stress della dislocazione fisica e talvolta temporale, l’impatto con nuove culture e linguaggi , il “lavoro” per avviare nuove appartenenze, e per rispondere ad aspettative non più prevedibili, si traducevano frequentemente in vissuti che riguardavano lo stesso assetto identitario di una persona.
Ancor più delicato e con maggior rischio se questo coinvolgeva bambini o adolescenti.
-la consapevolezza che nel mare magnum delle esperienze di questo tipo, era elevato, per queste persone, il rischio di imbattersi in soluzioni approssimative e poco qualificate, come poi ho avuto modo di appurare in tanti racconti ascoltati.
Così nasce la scelta del mio sito/luogo:
UN ASCOLTO POSSIBILE
Ed io inizio a lavorare “esclusivamente online”
All’epoca ero una tra pochi, fra i colleghi italiani
(vedi: 28 gennaio 2013)
-Consiglio Nazionale Ordine Psicologi
RACCOMANDAZIONI DEL CNOP
SULLE PRESTAZIONI PSICOLOGICHE ATTRAVERSO TECNOLOGIE DI COMUNICAZIONE A DISTANZA (2013)
- L’Ordine degli Psicologi della Lombardia, a seguito del notevole aumento di richieste sulle prestazioni psicologiche online, ha dato vita al gruppo di lavoro “Psicologia e nuove tecnologie” che ho immediatamente contattato)
Sono passati 7 anni e siamo arrivati al 2020
LA PANDEMIA
Da ascolto possibile ad :unico ascolto possibile?
Abbiamo assistito ad una vera inflazione di siti e piattaforme che propongono la terapia online.
Massicce operazioni di marketing, “startup innovative e geniali”
Tutti hanno iniziato a parlare del tema della “salute mentale.
Continua a tacere o forse solo a “sussurrare” la comunità scientifica.
Non sembra chiedersi se come primo gesto di responsabilità di quelli come noi che lavorano in questo ambito non sarebbe fondamentale attrezzarsi con un tempo che non si attesti solo su una indiscutibile emergenza o peggio che risponda a logiche di mercato (in questo caso ai bisogni emergenti di aiuto).
Di nuovo risposte veloci, sommarie.
I dati sono ancora poco leggibili (intendo quelli che non forniscono le statistiche e i numeri) ma c’è indiscutibilmente un massiccio disagio che preme e incalza
Alcuni titoli: Colloquio psicologico durante una pandemia: capacità di adattamento professionale di uno psicoterapeuta – Lo psicologo del futuro
Quale psicologo in quale futuro???
Ma, questa, è un’altra storia